Francesco
Bellotto
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I DUE TIMIDI

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I due timidi, Venezia, Malibran 2011 (foto delle prove
e foto dalle recite di MICHELE CROSERA)
Scene di Massimo Checchetto, Costumi di Carlos Tieppo
Luci di Vilmo Furian

NOTE DI REGIA
Quando ho cominciato a studiare I due timidi, due suggestioni si sono immediatamente manifestate con prepotenza. Il silenzio dei protagonisti -che scelgono l'infelicità pur di non sovvertire un ordine subìto- e la meravigliosa musica di Rota scritta per gli assoli al pianoforte di Mariuccia.
Assieme agli allievi abbiamo voluto usare la produzione come itinerario d'indagine: volevamo trasformare in immagini queste suggestioni e metterle nel cuore del progetto.
Il 1950, il dopoguerra, la prigione delle convenzioni sono diventati il progetto scenografico, tradotto da Checchetto come una grande gabbia sospesa. Gli elegantissimi costumi di Carlos Tieppo ambientano precisamente l'azione in quella società. Il pianoforte è diventato strumento salvifico, la chiave della libertà.
Come sottotesto ho cominciato a montare lo spettacolo recitando agli allievi una storia inventata, un percorso psichico che desse senso al loro essere in scena al di là delle evidenze librettistiche. Questa narrazione doveva restare segreta, essere semplicemente uno strumento di lavoro per tutti noi; poi ci siamo affezionati e abbiamo voluto raccontarlo anche al pubblico. Ci sembrava importante.






In questa sede si propone per intero il racconto: al Malibran Il prologo veniva recitato da Vittorio, il portiere; i tre tempi erano naturalmente la rappresentazione teatrale del testo di Nino Rota e Suso Cecchi d'Amico.
Pubblico queste pagine internet nel giorno della memoria 2012, dedicandole a Christa Gorian, doloroso e indimenticato tributo di sangue della mia famiglia al mostro di Buchenwald. Le fotografie bianco e nero inserite nel testo sono un'elaborazione dell'Hiroshima Dome, l'unico edificio della città giapponese rimasto impiedi dopo l'esplosione atomica del 6 agosto 1945.

Mariuccia, Raimondo
e Pianoforte


Breve racconto in un prologo, tre tempi
ed una messinscena
di Francesco Bellotto

PROLOGO
Era il 1950. Nel Paese la guerra era finita da poco. Le città, le campagne, le scuole, gli ospedali erano distrutti. Qualche casa sfuggita alle bombe rimaneva impiedi.


Queste poche abitazioni, piccoli preziosi beni da non perdere, venivano gelosamente custoditi dai proprietari, diventati cattivi, perché assediati dai poveri. Vicino ad una di queste case un giorno prese a formarsi una piccola comunità. I giovani del Paese erano accorsi attorno a quel palazzo superstite. La padrona, una certa vedova Guidotti, invece di allontanarli ebbe un'idea. -Ho bisogno di lavoranti!- disse. -Fermatevi nel mio cortile. Tu sarai la MIA cameriera, tu il MIO calzolaio, tu il MIO medico.- In cambio, l'avara signora concedeva pochi spiccioli, del cibo scadente e qualche centimetro del giardino dove poter vivere e riposare.
Tutto sembrava procedere per il meglio: la Guidotti diventava sempre più ricca affittando stanze della casa e approfittando dei servigi dei suoi dipendenti, trattati come dei barboni.
C'era un problema, però.




TEMPO PASSATO
Durante la guerra, quell'imbecille di suo marito aveva accolto in casa una bambina con la madre. Era gennaio, e le due, piangendo, raccontarono di come -quella notte- qualcuno avesse rotto la vetrina del loro negozio. La bimba viveva con i genitori nella famosa “Bottega Luison”: lì, nel cuore dei vicoli in centro, da più di duecento anni i nonni dei nonni dei nonni di Mariuccia (questo il nome della bambina) vendevano canarini, pappagalli e piccoli animali.
Dalla vetrina rotta erano entrati alcuni soldati, mentre i cocoriti spaventati davano l'allarme. Cominciarono a spaccare tutto e a sparare in aria col mitragliatore, urlando in tedesco. Il papà adesso era in ginocchio, in mezzo alla bottega, circondato da quei mostri che facevano domande che lui non capiva. Mariuccia era nascosta nell'armadio con la mamma che le tappava la bocca e le sussurrava di tacere. Ma la rabbia divenne più forte della paura. Uscendo dall'armadio gridò -Quello è mio padre! lasciatelo andare bastardi!!!-. I soldati si fermarono per un istante, guardandola stupiti. Persino i cocoriti smisero di starnazzare, creando un silenzio irreale. Poi i nazisti scoppiarono in una risata cattiva. Un rumore secco. Papà disteso che non parlava più. Dopo fu tutta una corsa. La mamma e la bimba che scappavano dal retrobottega tenendosi per mano, divorando affannosamente le gelide vie della notte.
Il Signor Guidotti, che di sicuro non s'intendeva di affari come la moglie, permise loro di nascondersi nel solaio. Del resto c'è da dire che all'inizio le due inquiline segrete non davano fastidio. La mamma puliva le scale e Mariuccia era la persona più invisibile del mondo. Lentamente aveva trasformato il solaio in una specie di piccola gabbia, un luogo protetto dove vivere senza paura. Da quella brutta notte Mariuccia aveva smesso di parlare: pensava che papà era stato portato via per colpa delle sue parole. Come i cocoriti impietriti aveva deciso di tacere. E in verità aveva anche smesso di udire: temeva di dover sentire di nuovo quella risata.
Un giorno il Signor Guidotti, che aveva imparato a voler bene alla piccola sordomuta, aveva firmato una carta che diceva che quella soffitta sarebbe diventata di Mariuccia e di sua mamma. La Signora Guidotti si era molto arrabbiata col marito: litigavano continuamente, tanto che il Signor Guidotti un giorno se ne andò via. O forse morì.
La guerra intanto continuava per i fatti suoi. Finché, una domenica mattina, uno spettacolo fantastico. Le bombe cadevano tutto lì intorno. Decine, centinaia, forse migliaia. Dall'abbaino, in punta di piedi, Mariuccia spiava la città che si scioglieva casa dopo casa. Per lei tutto questo accadeva per magìa, nel silenzio più fondo. La gente vagava tra fumo e macerie, istupidita e senza meta. Ma la piccola gabbia di Mariuccia era rimasta intatta in cima al palazzo Guidotti, incomprensibilmente risparmiato dalla devastazione.







Le sembrava fossero passati mille anni da quando aveva smesso di udire. Nel solaio c'era un pianoforte abbandonato. Mamma, seduta sullo sgabello, ogni tanto vi faceva danzare dolcemente le dita. Capitava quando pensava a papà e alle cose tristi, e quella domenica stava suonando la ninnananna a quel Paese addormentato per sempre.
Mariuccia, impiedi sulla soglia, guardava il pianoforte. In mezzo a tutto quel silenzio un suono lontanissimo cominciò a comparire, diventando sempre più chiaro. Mamma, capendo, si girò verso di lei: -Riesci a sentire? Mariuccia sorrise e la sua voce chiara disse con semplicità -Sì-. Da quel momento, Pianoforte, con la “P” maiuscola, come lo chiamavano, divenne il compagno di Mariuccia. La bimba, ormai diventata ragazza, volle imparare a suonarlo bene e la madre, instancabile, le faceva lunghe lezioni di musica.
Pianoforte aveva insegnato a Mariuccia ad ascoltare di nuovo.
Pianoforte le aveva restituito la voglia di parlare.
Pianoforte aveva ridato una figlia a sua madre.
La guerra era finita. Ora, come dicevamo, il problema della Guidotti era che non poteva affittare la soffitta della casa perché abitata dalle intruse, e oltretutto il canto di Pianoforte era diventato fastidiosamente continuo.



Raimondo era un giovane di belle speranze. Suppergiù dell'età di Mariuccia. Amava i vestiti di sartoria e le cose belle: la sua famiglia un tempo era ricca e possedeva molte case. Poi la guerra e quella magica pioggia di bombe. Era riuscito a salvare una valigia con un bel vestito, qualche camicia, un paio di scarpe di cuoio verniciato ed un portafogli. Con il suo bell'abito e con la valigia vagava nella città quando la voce di Pianoforte lo colpì. Guardando verso l'ultimo piano di casa Guidotti aveva intravisto una bellissima ragazza che stava suonando.
Da allora era passato un anno. Timidamente, Raimondo ogni giorno ritornava in quella strada, sostando a lungo per sentire quelle melodie struggenti e intravvedere -fosse solo per un istante- quel piccolo scricciolo rinchiuso nella sua gabbietta. Timidamente, Mariuccia lo scorgeva: in gran segreto aveva cominciato ad innamorarsene.
Finalmente Raimondo prese coraggio e decise di usare tutto il danaro del portafogli per affittare una stanza in casa Guidotti: lì avrebbe avuto sicuramente occasione d'incontrare la sua pianista e confessare il suo amore. (Si apre il sipario e comincia l'opera)
TEMPO PRESENTE
Quel giorno, eccolo con la sua valigia e il suo bell'abito bianco in via del Pozzo 53. La Signora Guidotti prima lo scambia per un idraulico e poi lo sistema nella stanza proprio sotto la soffitta dove Mariuccia abita. E così, dopo qualche incertezza, i due ragazzi si sporgono dalla finestra per salutarsi.
-Buongiorno!- fanno in tempo a dirsi, eppoi SBAM! Uno schianto. Qualche cosa (una gabbia? una tapparella? una chiave? non si sa.) è caduta sulla testa di Raimondo. Il ragazzo perde i sensi e la Signora Guidotti, preoccupata, lo soccorre. Con un vistoso bernoccolo in fronte finalmente Raimondo rinviene: in realtà è ancora confuso, e parla alla padrona di casa pensando di essere con la bella Mariuccia. Le dichiara i suoi sentimenti. Alla brutta Signora Guidotti non par vero: è tutta contenta d'aver trovato un giovane corteggiatore. Al piano di sopra si svolge una scena analoga: Mariuccia, alla vista del bel Raimondo svenuto, si spaventa e si sente male. La mamma corre a chiamare il medico. Il dottor Sinisgalli entra nell'appartamento e cura l'ammalata, che si confida. Ma il medico è attratto dalla ragazza, e perciò, sentendola parlare d'amore, equivoca: si convince che pure lei sia invaghita di lui.
Senza volerlo, i due innamorati Raimondo e Mariuccia si trovano fidanzati con persone che non amano.
I timidi adesso sono combattuti: non oserebbero tirarsi indietro da questo pasticcio, hanno paura delle conseguenze, ma l'amore è troppo forte. Prima cantano uno struggente duetto ognuno dalla propria stanza e infine escono per incontrarsi sul pianerottolo delle scale e dirsi tutto. Almeno per una volta. Purtroppo il dottore e la Guidotti sopraggiungono in quel momento e li riportano nei loro appartamenti.
Prima di chiudere le porte, però, un istante tremendo. Raimondo guarda Mariuccia. Mariuccia guarda  Raimondo. Starebbero per dirsi tutto, ma Raimondo s'inginocchia, minacciato dalla padrona di casa. Mariuccia lo vede e ricorda papà. È un lampo. Vorrebbe dire a quella vecchia bastarda di lasciarlo andare... E così, l'unica cosa che esce dalle bocche dei due innamorati è una parola: -Buonanotte-.

TEMPO FUTURO
Da quel Buongiorno e Buonanotte passeranno altri due anni. Raimondo si sposerà con la Guidotti, diventando l'amministratore della pensione. Non troverà il coraggio di dire a sua moglie che non l'ama. Ma imparerà ad amare la sua casa, i suoi soldi, il suo potere. Forse Mariuccia ha fatto bene a non mettersi con lui.
E la timida Mariuccia? Diventerà la signora Sinisgalli, la sposa del dottore, ma continuerà a difendere la propria poetica malinconia nella sua gabbietta. Finché un giorno Pianoforte non la prenderà per mano.
E la porterà su nel cielo, dove abita la musica. (Si chiude il sipario).





dalla recensione di Guido Barbieri in LA REPUBBLICA:

09 aprile 2011

«Nella "storia del candore" Nino Rota occupa - secondo Giovanni Morelli - un posto speciale. A questa storia "minore" il Teatro La Fenice e il Conservatorio di Venezia aggiungono ora una appendice preziosa: la metamorfosi teatrale di un' operina (da "eseguirisi al buio"...) composta per la radio nel 1950. Si intitola I due timidi e racconta la vicenda, tradotta in commedia da Suso Cecchi D' Amico, di due timidissimi innamorati che per paura di dichiararsi finiscono tra le braccia degli amanti "sbagliati". Francesco Bellotto la mette in scena come se fosse un immaginario "prologo all' opera", mentre Maurizio Dino Ciacci guida con misura e con ironia gli interpreti e l' orchestra del "Benedetto Marcello"».
Guido Barbieri



dalla recensione di Roberto Mori in L'OPERA:
Maggio 2011
Articolo completo:
http://robertomori.blogspot.com/2011/05/nino-rota-al-malibran-la-felicita-odia.html

«L’impianto semplice e funzionale di Massimo Checchetto era incentrato sull’elemento scenico della gabbia, a simboleggiare l’isolamento e l’incomunicabilità tra i protagonisti. La regia di Francesco Bellotto ha assecondato con adeguata vivacità il ritmo della commedia e ne ha sottolineato alcuni effetti parodistici senza sacrificare la stilizzazione complessiva.»
Roberto Mori


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