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Bellotto
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IL GIOVEDÌ GRASSO in Ancona

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BOZZETTO DI LUCIO DIANA
RENDERING SPAZIO SCENICO - LUCIO DIANA

«Costretto dalle limitazioni anticovid che vedono due terzi del palco occupati dall’orchestra, Francesco Bellotto organizza comunque una regia frizzante e briosa in puro stile vaudeville, spostando l’azione in un hotel negli anni 30 del secolo scorso (evocato dai bellissimi costumi e dagli arredi di Lucio Diana e Stefania Cempini) dove i personaggi entrano, escono e agiscono sfruttando anche i pannelli di separazione con l’orchestra. I caratteri sono accuratamente salvaguardati nello spirito originale della commedia napoletana riportata alla grande tradizione contemporanea.»

Dalla recensione di Domenico Ciccone



«Con Il giovedì grasso di Donizetti, la farsa degli equivoci e dei travestimenti in tempo di carnevale, ci siamo proprio divertiti».

Dalla recensione di Giosuetta Guerra


«Per il resto, Bellotto ripone il suo pedigree di regista filologo e storicista: il profumo del vaudeville francese (alla radice dell'opera c'è Scribe, a sua volta filtrato dal Molière di Monsieur de Pourceaugnac) cede il passo ad aromi di altre epoche e latitudini, la napoletanità di molti passaggi del libretto diventa totalizzante, si cerca un immaginario condiviso che ondeggia tra il rivistaiolo e la pochade cinematografica, Totò e Nino Taranto, Mario Mattoli e Sergio Corbucci. D'altronde, se il giovane Donizetti del Giovedì grasso è l'estremo avamposto di un'opera buffa ancora settecentesca nelle sue radici, perché non rievocarlo attraverso quelli che sono, in fondo, gli ultimi fotogrammi della cultura farsesca?
«Per vitalità e simpatia, gli otto personaggi – che la regia, facendo lievitare la sarabanda degli insiemi, aumenta a dieci con l'aggiunta di una pianista e un cameriere muto – sembrano uscire proprio da quelle pellicole».

Dalla recensione di Paolo Patrizi


«il regista Francesco Bellotto ha ambientato l'opera nella hall di un alberghetto, con porte fatte di pannelli trasparenti nel proscenio dietro i quali si scorge l'Orchestra Sinfonica 'G. Rossini', sviluppando l'azione frontalmente come se si trattasse di un cabaret.
Un'ora e un quarto di divertimento, che raggiunge l'apice nella feroce litigata in napoletano tra il Sigismondo di Alberghini e il suo servo Cola (Bartolucci).
E subito dopo, annunciata a scena aperta da Alberghini, l'aria sostitutiva per Sigismondo scritta da Donizetti nel 1830 in italiano per il basso Antonio Tamburini, che poi non la cantò, attenendosi a quella in napoletano.
Un esilarante brano impregnato di misoginia che si conclude scandito da applausi con la frase: 'mi son scordato che il celibato fa singolare e l'ammogliato fa pluralità'.



NOTE DI REGIA

La farsa napoletana è un genere teatrale estinto. Lo sapeva anche Eduardo, che quando allestiva le commedie del padre, Eduardo Scarpetta, realizzava quasi sempre “liberi adattamenti”, denunciando implicitamente l'impossibilità di perpetuare alla lettera -nell'epoca del moderno “teatro di regìa”- modi, contenuti ed efficacia di quel repertorio, antico almeno quanto la commedia dell'arte. Repertorio peraltro fortunatissimo, e pure laboratorio di innovazione e di formidabili carriere attoriali. L'ultima fiammata del genere è fra gli anni quaranta e i primi sessanta del Novecento, quando la cinematografia prese a sfruttare con gran successo le antiche storie e le antiche maschere di geniali attori quali -ad esempio- i Nino Taranto, i Peppino De Filippo, le Tina Pica, i Pietro De Vico e naturalmente i Totò.   

Il giovedì grasso, è -in fin dei conti- matrice e ricalco di quel mondo: trame leggere, allusioni alla contemporaneità, parodie, psicologie semplici, lazzi, recitazione enfatica, postura frontale, prime parti affidate a veri mattatori capaci persino d'improvvisare a soggetto.

Si legge su qualche repertorio che il folie-vaudeville da cui Domenico Gilardoni prese la trama, Encore un Pourceaugnac di Scribe e Delestre Poirson (1817), sarebbe ambientato nel XVII secolo, epoca della commedia di Molière. La notizia è falsa: lo dimostra, oltre alla esatta descrizione della società parigina dell'Ottocento, questo bell'acquerello che riproduce  l'ultima scena della commedia.



È vero che né gli autori francesi né Gilardoni specificano l'epoca della pièce, ma per il pubblico del tempo era assolutamente implicito che questi copioni fossero riferiti alla contemporaneità. I costumi nella precedente illustrazione (siamo prima del 1820) sono in perfetto stile impero, mentre Luigi Lablache/Sigismondo e Giovanni Pace/Cola (siamo nel 1829) sono abbigliati nel seguente figurino secondo la moda di dieci anni dopo.






L'epoca della messinscena, insomma, progrediva coll'avanzare degli anni. Questa è la ragione per cui pensare ad una ambientazione “storica” in questo caso avrebbe poco senso. E del resto avrebbe anche poco senso attualizzare al 2021 un genere teatrale che -come detto in apertura- nel 2021 non esiste più. E poiché l'ambientazione per chi mette in scena è il primo strumento per trovare connessioni efficaci fra pubblico in sala e azione sulla scena, assieme a Lucio Diana e Stefania Cempini si è convenuto nel progettare il lavoro attorno all'epoca della farsa cinematografica, all'immaginario dei Totò e dei De Sica. In poche parole: abbiamo preso l'ultimo fotogramma d'una lunga tradizione, quella specie di attimo congelato prima dell'oblìo, perché è l'unico immaginario arrivato fino a noi, l'unico set che -anche solamente a un primo sguardo- può rievocare immediatamente nel pubblico d'oggi i sottintesi, i climi, lo stile di quel mondo.

E questo è stato il punto di partenza. L'altro vistoso cambiamento di cui voglio dar notizia riguarda il luogo dell'azione. Originariamente nel testo francese tutto si svolgeva nelle vicinanze di Parigi, dove era di stanza un reggimento intero. Al comando delle truppe c'è il Colonnello di Verseuil, che risiede -con la giovane figliola Nina- in una piccola casetta nel campo militare. Nel libretto dell'opera donizettiana il clima s'imborghesisce: siamo in una ricca casa di campagna dove il Colonnello ospita i suoi amici (il cassiere d'origine napoletana Sigismondo e la moglie Camilla) col loro servitore  (Cola). Non solo: il libretto si giova anche di un'altra serva, Stefanina, che finisce con l'essere la classica cameriera ingenua e indiscreta. La gerarchia militare così precisamente delineata nel modello francese (a scendere: Colonnello Verseuil, Ufficiale Roufignac, Quartiermastro Sigismondo Futet, Luogotenente Teodoro e Sottoluogotenente Giulio) lascia il posto nel libretto a una classica ripartizione di ruoli a coppie da commedia dell'arte:

Il Colonnello: il Capitano burbero, dalla vocalità seria e cantabile
Ernesto: il personaggio di rango, il moralizzatore astuto, dalla vocalità ornata e nobile  
Sigismondo e Camilla: coppia dei furbacchioni puniti, dalla vocalità buffa
Nina e Teodoro: coppia degli innamorati esitanti, dalla vocalità legata e sentimentale
Cola e Stefanina: coppia di servi bassi, vittime dell'astuzia altrui, dalla vocalità parlante

Nel Giovedì grasso quel che si percepisce maggiormente è dunque la funzione drammaturgica dei ruoli: quel che importa a Gilardoni e Donizetti è mettere in risalto un intrico moraleggiante fatto di amori contrastati e travestimenti.

In quest'ottica, il progetto di spazio scenico di Lucio Diana aiuta moltissimo: si tratta in fin dei conti di sei porte. L'intrico passa attraverso il ricambio continuo dei personaggi che varcano quelle soglie. La casa di Verseuil -appena si allontana il padrone- si trasforma subito in un luogo pubblico, in una 'piazza' con continuo andirivieni. Porte, luogo pubblico, villeggianti, festa del carnevale, travestimenti, lazzi delle macchiette, ingressi a tradimento, inganni, lettere false e lettere vere, paventati adulterî, un duello all'alba, qualche passo di danza, i lumi di ribalta, un pianista che accompagna i monologhi dei comici, un'orchestra e un direttore portati a vista come nel teatro d'avanspettacolo... Ho pensato dunque che l'unico luogo che potesse verosimilmente unificare tutto questo armamentario teatrale era la Hall di un alberghetto. E lì abbiamo invitato i nostri otto ospiti, ai quali chiederemo di rievocare l'epoca d'oro della farsa, dimenticarsi di intellettualismi, sottotesti e metapsicologie. Recitare alla ribalta? In fronte al pubblico? Con gesti caricati? Con costumi, trucchi e parrucche da caratterista?
Sì: perché quel che si vuol mostrare al pubblico in quest'occasione è il modo d'una pratica teatrale che non si conosce più. E così onorare il suono, l'eleganza, il fascino e la poesia d'una nobile lingua perduta.

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