Francesco
Bellotto
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LA CENERENTOLA

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DIRECTOR'S NOTES
Intervista a Mika Inouchi
(ufficio stampa Osaka Festival)

1) Quale funzione ha, nella sua concezione, la regìa di un'opera di repertorio come Cenerentola?

«Il  grande regista Akira Kurosawa in una intervista in cui spiegava il suo  metodo di lavoro, dichiarava che tutto comincia da un foglio bianco, sul  quale si sforzava di scrivere ogni  giorno qualcosa. Qualsiasi cosa. L'atto della scrittura, per Kurosawa, è  il principio della creazione artistica. Il più famoso scrittore  italiano vivente, Andrea Camilleri, prima di essere conosciuto come  grande narratore lavorava come affermato regista teatrale. In realtà il  legame fra scena e scrittura è fenomeno ben presente anche nell'opera  italiana: i grandi "direttori di scena"  della tradizione sono sempre  stati, prima di tutto, scrittori. I nomi che vengono subito in mente  sono quelli di Carlo Goldoni, Lorenzo Da Ponte, Salvadore Cammarano,  Calisto Bassi e Francesco Maria Piave. Nel secolo scorso i direttori di  scena prendono il nome di "registi", magari passando dal melodramma al  cinematografo. Mantengono però ben saldo il doppio canale espressivo: si  pensi a Renato Simoni, Giovacchino Forzano, Nino Oxilia, Giovanni  Pastrone, Guido Salvini, Mario Soldati, Sergio Tofano, Luchino Visconti,  Pier Paolo Pasolini, Eduardo De Filippo, Ugo Gregoretti, Dario Fo,  Roberto De Simone... Ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo.
Ho  voluto cominciare a parlare di Cenerentola partendo dalla relazione fra  scrittura e messinscena perché da molto tempo mi sono convinto che un  regista non sia altro che un narratore travestito. Per raccontare non  usa alfabeto o ideogrammi, ma oggetti concreti e persone; i suoi mondi,  anziché scaturire dalla pagina di un libro o da un file pdf, prendono  vita dal palcoscenico ogni volta che si va in scena.»

2) Lei si colloca nella corrente della regìa tradizionale o si sente più vicino agli spettacoli di innovazione?
«Né  da una parte né dall'altra. Se il regista è un narratore, allora  dobbiamo concludere che gli appassionati della cosiddeta "regìa  tradizionale" sostengono un falso argomento: affermano, infatti, che il  regista d'opera non dovrebbe cambiare epoche, stili figurativi, ambienti  e comportamenti perché il suo compito è di mettere in scena una storia  scritta da altri autori. Eppure, come dicevo, un regista non è  semplicemente un tecnico: è un artista che viene messo sotto contratto  per raccontare qualcosa. E il narratore, per definizione, non è mai  neutro anche se racconta una storia scritta da altri, anche se ripete un  copione o uno spartito imparati a memoria. Una parola recitata  sottovoce, il colore d'un costume, una esecuzione più accelerata, uno  sguardo al pubblico: sono dettagli che cambiano completamente il senso  della narrazione. Il teatro, per me, è esattamente tutto questo.
Come  in uno specchio, l'argomento vale sia per gli allestimenti più  tradizionali sia per quelli più innovativi: quando un regista rinuncia  alla sua missione narrativa, la messinscena diventa più importante del  racconto stesso. Ad ogni costo deve stupire, usare obbligatoriamente  oggetti fuori dal contesto, evitare l'immaginario storico. Esattamente  come la tradizione più ovvia, il teatro "innovativo" diventa in questo  caso pura esteriorità: la "moda" e il "museo" sono facce della stessa  medaglia.
Io non vorrei dunque stare né da una parte né  dall'altra: la mia ambizione (non sempre ci riesco, sia beninteso) è di  narrare con i miei strumenti le storie dell'opera.
Del  resto Iacopo Ferretti, il librettista-drammaturgo dell'opera di Rossini,  nel 1817 compiva operazione analoga: prendeva un libretto scritto tre  anni prima a Milano (Agatina di Fiorini, che a sua volta era il ricalco  dell'opera Cendrillon di Isouard, una lontana riscrittura della favola  di Perrault) e lo proponeva nuovamente al pubblico del Teatro Argentina.  Per Cenerentola dobbiamo infatti parlare di una serie piuttosto  complessa di strati sepolti sotto la superficie, la "copertina"  rappresentata dal libretto di Ferretti. E un regista nel 2018 ha a che  fare con ulteriori stratificazioni, tutte successive alla prima  rappresentazione: ad esempio il film di animazione Cinderella, prodotto  da Walt Disney nel 1950, o la messinscena dell'opera realizzata da  Jean-Pierre Ponnelle del 1981.»

3)  La favola di Cenerentola è per la cultura mondiale un testo denso di  riferimenti ed esempi, dalla letteratura al cinema, dal teatro di parola  alla danza. Concretamente, tutta questa complessità, come verrà  utilizzata nel suo allestimento giapponese?
«È  la quarta volta in cui mi si chiede di raccontare La Cenerentola di  Rossini: la prima fu a Piacenza, la seconda a Venezia, la terza a  Bergamo. In tutt'e tre le edizioni l'opera aveva un pubblico  giovanissimo. A Kawasaki e Osaka  lo spettacolo sarà invece rivolto  principalmente ad un pubblico generalista. Per questa ragione -pur  mantenendo identica la sostanza del progetto e partendo dalla base  scenografica dell'ultima produzione (Bergamo 2008)- ho voluto cambiare  alcuni aspetti della impostazione originale, rendendola meno "ingenua",  ed esplicitandone la poetica di fondo. In particolare, metterò in scena  proprio la narrazione, un "racconto del racconto" di Cenerentola. È una  pratica "metateatrale" a tutti gli effetti.
Ho  immaginato perciò che un giovane pieno di fantasia avesse appena finito  di leggere il libro di Perrault. E che cominciasse a rappresentare per i  suoi fratelli la "sua" Cenerentola, utilizzando piccoli oggetti rubati  dai cassetti: una vecchia pipa diventa un caminetto con la cenere, la  scatola di fiammiferi un letto, la macchinina-giocattolo una carrozza  fatata, il tavolo della cucina un salone principesco, l'orologio da  polso una grande pendola, e così via.
Federico Fellini  ricordava con queste parole i giochi d'infanzia, il suo teatrino dei  burattini domestico: «Mettevo in scena i personaggi interpretando tutte  le parti. Fu allora che mi abituai a sviluppare, credo, quello stile a  cui sono ricorso più tardi in veste di regista per mostrare agli attori  come vedevo il personaggio. Ovviamente ero anche l’autore dei testi.»
I  testi, appunto. Tutto, nella mia Cenerentola, nasce e termina in un  libro di carta, la più potente macchina narrativa che l'uomo abbia mai  costruito: il teatro nasce quando i personaggi cominciano a scappar  fuori dal testo. La mia regìa, se vogliamo, sovverte quanto genialmente  inventato da Jean-Pierre Ponnelle: là  una schiera di personaggi vivi e  colorati si muoveva su uno sfondo disegnato al tratto, in bianco e nero,  come si trattasse di vecchie illustrazioni che formavano uno splendido,  gigantesco, teatrino di carta.
Invece,  nell'allestimento di Angelo Sala (scenografo) e Alfredo Corno  (costumista) non saranno le illustrazioni del libro a contenere e  giustificare l'azione dei personaggi. Saranno, invece, i personaggi  stessi -questi sì, con costumi in bianco e nero- a prendere vita: si  ribelleranno alla prigionia dei libri ed usciranno dalle pagine. Un  tuffo anarchico verso il vuoto.
Chi ama la letteratura e  gioca con essa (come fa  ogni teatrante) sa bene che ad un certo punto i  personaggi devono tagliare il cordone ombelicale con il copione, con il  testo del drammaturgo e vivere di vita propria. Ad esempio, il mio  Alidoro non sa bene se essere un saggio filosofo, un mago Merlino o la  Fée marraine, confondendosi tra Disney, Perrault e Ferretti. La stessa  Angelina, la protagonista: nella tradizione è vittima sottomessa, mentre  nel mio spettacolo si ribella al suo destino (l'orologio, per lei, è il  vero nemico della felicità) e decide persino di tenere per sé il  prezioso braccialetto che Alidoro le ha donato come garanzia per un  futuro incerto. Diventa, insomma, una ragazza del nostro tempo, non si  riconosce nel cliché della "buona orfanella". Ha coraggio, ama il  rischio, è una piccola femminista ante litteram. E il mio Dandini sembra  ogni tanto un giacobino travestito («Eh! dico che da Principe / Sono  passato a far da testimonio»): ghigliottinerebbe volentieri Don  Magnifico, vecchio e disonesto rappresentante dell'Ancien-régime.»

4) Le favole hanno sempre una morale: nella sua Cenerentola qual è?
«Molto  semplice: per noi sognatori la condanna peggiore è quella di non  riuscire a liberare i personaggi dai libri. Saperli là dentro,  scalpitanti e desiderosi di vivere sul palcoscenico è un tormento.  Aprire il sipario: questo è il rimedio alla schiavitù di Angelina. E di  tutti noi.»

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