francesco bellotto
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Sketches by Lee Hak Soon for Turandot, Seoul Arts Center 2013

TURANDOT
29-31 Marzo 2013
Seoul Arts Center Opera House
SUGI OPERA PRODUCTION

Turandot: Irina Gordei/Anna Shafajinskaia
Calaf: Walter Fraccaro
Liù: Tatiana Lisnic
Ping: Marco Nisticò
Pang: Mario Alves
Pong: Leonardo Alaimo

Conductor: Giampaolo Bisanti
Director: Francesco Bellotto

Stage Designer: Lee Hak Soon
Costume Designer: Arrigo Basso Bondini




Fotografie di Maria Bellotto
dalle prove all'Arts Center Opera House






Immagini dalla trasmissione televisiva
del Canale Nazionale KBS1





Dalla notte al giorno
note di regia per Turandot

di Francesco Bellotto


È un grande onore essere stato incaricato di curare una regìa al prestigioso Arts Center di Seoul. Un ulteriore motivo di felicità è dovuto dal titolo: Turandot è una di quelle composizioni che meglio rappresentano la tradizione del teatro d'opera italiano. Una tradizione artistica nata nel 1600 e che proprio alla fine dell'esperienza pucciniana stava ormai chiudendo il suo ciclo di vita. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali si era diffuso ovunque un temibile concorrente: il cinematografo. Grazie agli effetti speciali e alle scenografie multiple, il cinema poteva meglio raccontare quelle storie di grandi eroi, paesi sconosciuti, regni misteriosi e incantati che da sempre erano un motivo di grande attrattiva per il pubblico del grande teatro musicale europeo. Non solo: la nuova forma di spettacolo garantiva guadagni dei produttori decisamente maggiori rispetto all'opera. Puccini, intuendo la forza del concorrente, già nel 1910 aveva scritto per il Metropolitan di New York un'opera strettamente ispirata alla moda western inaugurata con The Great Train Robbery, film del 1903 di Edwin S. Porter.


Turandot fu scritta da Giuseppe Adami e Renato Simoni, due personalità attive anche in campo cinematografico. La musica fu lasciata incompiuta da Giacomo Puccini, morto il 29 novembre 1924. Due anni dopo, alla Scala di Milano, ebbe luogo la prima rappresentazione sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale – come noto – interruppe la recita a metà del terzo atto, rivolgendosi al pubblico con queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.» La sera seguente l'opera fu rappresentata includendo anche un nuovo finale scritto da Alfano. Da allora è questa la forma in cui Turandot viene regolarmente allestita nei teatri di tutto il mondo.


Il dramma, per inseguire la spettacolarità dei nuovi mezzi d'espressione riprende e potenzia molti temi di grande moda in quegli anni:
1) la storia è ambientata in Cina, paese che per gli europei rappresentava un mondo culturalmente lontanissimo e affascinante
2) la vicenda si svolge in un'epoca remota nel tempo: quindi oltre all'esotismo geografico propone anche un esotismo di carattere storico
3) il comportamento dei personaggi è influenzato da forze magiche: la maledizione di Lou Ling; il “gelo” di Turandot; l'amore folle e improvviso di Calaf
4) il simbolismo che vive per mezzo di personaggi concreti che impersonano concetti astratti: Liù l'amore; il Mandarino la legge; Calaf la sfida; il popolo la bestialità; Ping Pong Pang la comicità; Putinpao la morte; Turandot la solitudine disumana del potere violento.

Puccini credeva che l'opera potesse sopravvivere perché, a differenza del cinema contemporaneo, possedeva la voce. Il canto italiano e la potenza della musica eseguita dal vivo avevano una forza e una bellezza che i film sarebbero riusciti a raggiungere compiutamente non prima dell'epoca del Dolby Surround, quasi settant'anni dopo.  

In questo senso preciso penso che Turandot sia un'opera “bandiera” di un'epoca, e che tutti gli elementi siano stati deliberatamente “ingigantiti” dal drammaturgo Puccini. Le scene sono imponenti. Il coro e i figuranti contano centinaia di persone. L'orchestra è di peso wagneriano, con tantissimi timbri esotici. La partitura d'orchestra è difficile e complessa. Le voci devono avere grande potenza per oltrepassare una fossa orchestrale molto sonora.

Io non credo che Puccini, come sostengono molti studiosi, non fosse riuscito a ultimare l'opera per l'impossibilità di descrivere il cambiamento di Turandot e il trionfo d'amore conclusivo, tema che apparentemente l'aveva spinto a scegliere questo soggetto. Io sono convinto che Puccini non volesse raccontare naturalisticamente la metamorfosi di una principessa algida e sanguinaria in donna innamorata. Infatti in quest'opera niente è quello che sembra. Come in ogni favola (pensiamo ad esempio a quelle dei fratelli Grimm) non c'è verità, non esiste logica psicologica: tutto è guidato dalla crudezza dei segni. Non c'è cammino progressivo dei personaggi: c'è invece apertura o chiusura, bianco o nero, amore o morte, pietà o ferocia, switch on o switch off. Siamo in questo modo molto lontani dal verismo italiano e molto vicini all'espressionismo del Die Brücke, per fare un esempio concreto.


Non a caso il soggetto dell'opera fu preso da un lavoro teatrale di Carlo Gozzi, un testo di genere fantastico scritto nel Settecento. Non era mai successo, prima, che Puccini avesse lavorato su un soggetto dichiaratamente zauber, con la sola eccezione della sua prima opera, Le Villi.

Per tutte queste ragioni ho scelto deliberatamente di non snaturare l'ambientazione, l'epoca, la gestualità e la narrazione complessivamente previste da Puccini.  Nessun altro autore italiano aveva mai messo per iscritto nelle sue partiture tante indicazioni di regìa. Questo è segno che Puccini concepiva la messinscena delle sue opere con grande precisione, e pretendeva che gli interpreti seguissero il suo progetto complessivo: teatro e musica allo stesso modo. E questo è esattamente quello che ho voluto fare. Semmai, ho cercato di dare maggiore visibilità alla dimensione simbolica del dramma, rispettando i molti segni iconografici disseminati nella partitura.

In questo senso alcune scelte possono essere considerate non convenzionali. Ping Pong Pang ad esempio sono visti proprio come ministri e sacerdoti della corte: hanno funzione di consiglieri ed educatori. Per denunciarne il ruolo ho introdotto un anacronismo, vestendoli da monaci buddisti. Nella favola di Gozzi, Ping Pong Pang erano interpretati da personaggi in maschera della commedia dell'arte, a loro, come capitava per i fools di shakespeare, spettava il compito di rivelare la verità facendo sorridere il pubblico. Questo spiega perché all'inizio del secondo atto entrano in scena Arlecchino e Brighella, a “mimare” il racconto di Ping e degli altri ministri. Si tratta apparentemente di un cortocircuito fra occidente e oriente, anche se in realtà è una “reminiscenza” culturale di Puccini che in questo caso, soprattutto in un paese che ha un'altra tradizione teatrale rispetto all'Italia, mi sembrava interessante recuperare anche se in chiave nostalgica ed onirica. Così come, a interrompere il malinconico racconto fatto da Ping interverrà una maschera che di fatto è l'alter ego di Turandot, la morte-Putinpao, che apre e chiude la parabola scenica.


La scena degli indovinelli sarà celebrata come un rito. Tre colpi di gong generano tre enigmi: il numero tre per l'occidente è numero sacro. Ognuna delle tre risposte (speranza, sangue, Turandot) è stato tradotto con tre drappi colorati. È un modo di legare visivamente il destino della principessa a quello della serva innamorata. Liù, come capita in molti riti sacrificali, è l'essere senza peccato che dovrà morire per purificare la maledizione di Turandot. Quando il corpo senza vita di Liù viene portato via assisteremo perciò ad un vero e proprio rito funebre, con la folla che prega e segue il cadavere avvolto nel drappo rosso dell'ultimo enigma. Queste sono le ultime pagine scritte da Puccini, e anche se l'opera rimase incompleta, il rito in realtà è già consumato fino in fondo. Tant'è vero che neppure la rivelazione suicida del nome di Calaf riesce a impedire il lieto fine.

L'opera si chiude in maniera rituale, in perfetto accordo rispetto allo svolgimento complessivo. La parola “amore” della principessa innesca la risposta dei sudditi: “O sole! Vita! Eternità! Luce del mondo e amore! Ride e canta nel Sole l'infinita nostra felicità!”. Dopodiché le ultime parole del dramma sono una tripla invocazione religiosa: “Gloria a te!”, proprio come in qualsiasi rito cattolico.

Anche in questo caso, il compito del regista è stato quello di assecondare l'enorme peso dato dagli autori alle immagini. Il clima lunare della maledizione viene rovesciato: finalmente, dopo tanti delitti e sangue il sole può sorgere. È finita una notte millenaria, è rotto l'incantesimo. Puccini progetta dunque il finale pensando ad un effetto visivo, proprio come si trattasse di una sequenza cinematografica. E questo è esattamente quello che ho fatto: l'ultima scena è l'unica ad essere stata illuminata con luci calde, e il palazzo imperiale diventa il tempio dorato del sole. Era il 1924, l'opera italiana abbandonava trionfalmente il palcoscenico per lasciar spazio al cinematografo. Colpisce constatare come la prima grande opera italiana, l'Orfeo di Monteverdi, nel 1607 finisse praticamente con il medesimo gesto teatrale: l'arrivo di un nuovo giorno. l'alba del sole che arriva a consolare le miserie dell'umanità.

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